Il 24 giugno 1928 allo Stadio Nazionale, l’attuale Flaminio, sono in quarantamila ad assistere a quello che probabilmente era l’evento sportivo dell’anno: la finale europea dei pesi medi di pugilato, con due italiani a contendersi il titolo. Un incontro che è anche un’immagine della società dell’epoca. Da un lato, Mauro Bosisio, tecnico, biondo, milanese, bianco. Dall’alto Leone Jacovacci, potente, romano, del popolo, nero.
Uomini del regime come Balbo e Bottai sono seduti in prima fila ad assistere al match, per la gioia dei giornalisti e dei fotografi. Addirittura Gabriele D’Annunzio qualche giorno prima aveva annunciato la sua partecipazione. Il match fu duro. Alla fine a vincere lo scontro e il titolo fu Leone, ma le sue imprese non vennero celebrate. Non diventò un eroe del fascismo e un modello da seguire come spesso avveniva per gli sportivi vincenti del periodo. Questo perché Leone è nero, e la pelle nera mal si addice al modello del bianco “uomo italico” che viene propagandato dal regime fascista. Infatti, la storia sportiva di Leone termina esattamente dopo quella vittoria. Sembrerebbe che Mussolini stesso diede ordine di ostracizzare la carriera del giovane atleta. Addirittura le immagini del match allo Stadio Nazionale vengono manomesse. Da campione d’Europa, Leone è costretto a tornare in Francia, mentre Bosisio si fa intervistare circondato da gerarchi e membri del partito, affermando di essere stato vittima di una grande ingiustizia con quel verdetto. Da quel momento in poi, della vita di Leone si sa ben poco. Si sa che abbandonò lo sport professionistico e dopo la guerra rientrò in Italia, svolgendo lavori occasionali, e morì a Milano nel 1983.