La religione ha ucciso Bob Marley

Ricorrono in questi giorni i 40 anni dalla prematura scomparsa a soli 36 di Robert – meglio conosciuto come Bob – Nesta Marley, una delle figure maggiormente iconiche della musica di protesta dell’ormai secolo scorso.

Ma forse tra dreadlock (le impropriamente dette “treccine”), foglie di marijuana e ritmi apparentemente allegri e caraibici, a molti fra noi allora come oggi è sfuggito il profondo misticismo, ove non l’esaltazione fanatica, che accompagna Marley quasi dall’inizio della sua produzione – ska e rocksteady prima, reggae dopo – fino a causarne persino la morte.

Figlio di un inglese e di una giamaicana, discriminato come mezzosangue in una infanzia da quasi orfano nei crudeli sobborghi di Trenchtown, già all’apice del successo e dell’impegno politico per la sua martoriata Giamaica a chi gli chiede se si senta più un profeta o un liberatore, risponde immancabile: «I don’t stand for black man’s side, I don’t stand for white man’s side, I stand for God’s side».

Bob Marley, sfuggito negli anni sessanta dall’influenza cattolica della madre, è stato un orgoglioso seguace del rastafarianesimo, tanto da esserne oggi considerato un profeta messianico a tutti gli effetti. Religione monoteista nata negli anni venti del novecento e che ruota attorno alla figura dalla quale prende il nome: il ras (“capo”) e tafari (“da temere”) Hailé Selassié I, come veniva appellato prima di essere incoronato nel 1930 imperatore di Etiopia come “Re dei Re” (negus neghesti), considerato Gesù Cristo in Terra nella sua seconda venuta – seppur curiosamente egli stesso adepto della chiesa ortodossa etiope e mai convertito al culto in suo onore.

Di derivazione cristiano nazionalista e improntata al recupero della dignità culturale africana, la religione rastafariana viene diffusa in tutto il mondo soprattutto a partire dagli anni cinquanta grazie alle predicazioni di Marcus Garvey, considerato dai seguaci al pari di Giovanni Battista. Quando si diffonde in Giamaica tra panico e sconcerto la notizia della morte di Sellasié nell’agosto del 1975, i santoni Rasta esortano a credere nell’indicazione biblica che «Egli può scomparire quando vuole» e Marley scrive appositamente per il Leone di Etiopia, il Lion of Zion, la canzone Jah Live, Dio vive. Molti rastafari peraltro ritengono ancora oggi lo stesso Selassié perdurantemente vivo in senso fisico e letterale, anche se volontariamente occultato agli uomini.

Lo scopo finale del culto rastafari è il ritorno alla ancestrale Terra promessa, la nuova Gerusalemme, la biblica Sion (la marleiana Zion), Identificata appunto con l’Etiopia, meta messianica del grande ritorno dei neri deportati in America e in dualista e costante opposizione contro il corrotto mondo bianco e occidentale della turpe Babilonia. Solo i virtuosi, coloro i quali combattono l’avidità babilonese, si salveranno dall’imminente apocalisse e vedranno la nuova era di prosperità.

Una delle caratteristiche a noi più note, l’utilizzo della cannabis sativa – la ganja che secondo la leggenda cresceva sulla tomba del re Salomone – ha finalità prettamente meditative e spirituali, permettendo la crescita della propria autocoscienza e quindi la possibilità di comunicazione con Jah, il dio Jahvè quindi di ebraica memoria. D’altronde i rastafari si considerano la tredicesima tribù di Israele e seguono le prescrizioni bibliche alla lettera. Prettamente vegetariani o comunque osservanti una alimentazione kosher, rispettano lo shabbat, ripudiano l’alcool e i tatuaggi, si tengono a distanza da cimiteri e cadaveri. E anche dalla contraccezione e ancor peggio dall’aborto: lo stesso Bob è padre di tredici figli.

Malgrado la venerazione portata alla moglie di Selassié, l’imperatrice Menen, come prima creatura dopo Cristo, la Madre della Creazione e la Regina dei Re, in ossequio alla lettera biblica (san Paolo, anche qui!) la posizione della donna è gerarchicamente subordinata a quella dell’uomo, con suoi precetti specifici: niente trucco, testa coperta, abiti modesti che coprono spalle e ginocchia, divieto di indossare pantaloni e di usare sostanze chimiche nei capelli. Il ruolo assegnato alla donna è quello della nave, che trasporta i bambini, fa le pulizie, educa i figli e compiace il suo re (sic). Vi è l’espresso obbligo di accettare eventuali infedeltà del marito, la gelosia non è tollerata, ma al contrario è vietato alla donna accompagnarsi con altri uomini. Così come le è vietato svolgere determinate attività e persino avvicinarsi ai cosiddetti “fratelli” se ha le mestruazioni. No Woman, No Cry, proprio.

Non va meglio, anzi, con l’omosessualità: tutto il rastafarianesimo è omofobo senza mezzi termini. Sentimento peraltro acuito nella Giamaica contemporanea, mai ripresasi dal post colonialismo, ancora strutturalmente ghettizzata e ghettizzante, dalle condizioni di estrema povertà associate ad un tasso di istruzione bassissimo e che portano ad identificare l’omosessualità con la pedofilia o con l’Hiv (entrambi fenomeni purtroppo ben presenti nell’isola tramite il turismo sessuale) tanto da scatenare periodicamente veri e propri raid contro le persone lgbt. Non pochi gli artisti del panorama reggae che ultimamente hanno visto annullare concerti e tour, anche qui in Italia, proprio per le esternazioni di odio omofobo contenute senza alcuna perifrasi nei loro testi.

Oltre alla ganja, l’altro aspetto noto e di immediata percezione del rastafarianesimo, la tipica acconciatura in lunghi cordoni – i dreadlock, evoluzione spontanea e naturale di capelli ricciuti lasciati incolti – è frutto anch’essa di prescrizione religiosa. Il voto biblico del nazireato, nello specifico, descritto nel libro dei Numeri (presente tanto nella Torah ebraica quanto nella Bibbia cristiana) e che comportando la consacrazione della propria testa impone, tra le altre, di evitare qualsivoglia intervento sulla capigliatura. Ma non solo. Secondo il Levitico 21:5, i sacerdoti non si faranno tonsure sul capo, non si raderanno ai lati della barba e non si faranno incisioni nella carne.

Ecco perché quando nel 1977 viene diagnosticato a Marley un cancro epiteliale, un melanoma particolarmente raro e aggressivo, l’indimenticato musicista rifiuta l’amputazione del dito del piede che gli avrebbe sicuramente salvato la vita. Anche se molti suoi connazionali e correligionari sostengono ancora oggi sia stato eliminato dal Sistema, la corrotta bianca Babilonia di cui sopra, anche se alcuni commentatori parlano di negligenza e noncuranza, le prove documentali e testimoniali ci raccontano di un Bob Marley tenacemente ancorato ai suoi precetti religiosi, al punto da sottoporsi a costanti e successivi controlli medici fra Europa e Stati Uniti, rifiutando però sistematicamente, e proprio citando il Levitico, qualsivoglia tipo di intervento più o meno invasivo.

L’agonia dura quattro anni, sempre più difficili e dolorosi, con un Marley lentamente divorato dalle metastasi; sua moglie ci racconta come la celeberrima Redemption Song, del 1979, sia stata composta quando già la sofferenza di Marley rendeva evidente la fine vicina e prematura. Sempre più in preda a un torpore continuo, senza però interrompere né i concerti né l’attività propagandistica per la liberazione del popolo eletto, dopo un collasso nel 1980 a New York ulteriori controlli rivelano una enorme massa tumorale al cervello con la severa prognosi di un mese di vita.

«Rastafari is not a culture, it’s a reality», ci diceva Bob. Ciò nonostante subito dopo questa definitiva diagnosi e grazie anche all’insistenza di sua moglie Rita, appena sei mesi prima della morte, Marley si converte al cristianesimo etiope, si battezza con il nuovo e ultimo nome di Berhane Selassié e si taglia i celeberrimi dreadlock. Forte dei principi meno rigidi della nuova religione, si concede un trattamento in Germania da un medico olistico, Josef Issels, noto per una stravagante metodologia che porta il suo nome e con il quale nonostante varie condanne per frode sostiene di poter curare qualsiasi tipo di cancro. Metodologia che, a base di aspirina C, iniezioni di ozono ed esercizi fisico-spirituali, ovviamente nulla può se non aggravare ulteriormente la condizione del musicista che peggiora talmente durante il volo di ritorno nella sua Giamaica che è costretto a fermarsi a Miami dove morirà per una setticemia fulminante, ormai devastato da metastasi che dal dito del piede si sono diffuse non solo al cervello ma anche al fegato, a entrambi i reni e allo stomaco.

La storia non si fa con i se o con i ma. Forse senza l’ispirazione mistico-fanatica del rastafarianesimo non avremmo nessuno degli indubbiamente immortali, pur se in senso umanamente limitato, e indubbiamente capolavori per i quali si ricorda oggi Robert Nesta Marley. È però certo che senza di esso non avremmo ricordato oggi i quarant’anni dalla morte, perché, semplicemente, non sarebbe morto: non allora, non così.

Adele Orioli

Pubblicato 15-05-2021 alle 9:34 da Redazione Uaar

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